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15/01/2015 Commenti disabilitati su Conservatori e Popular Music Views: 3330 Appunti, Blog

Conservatori e Popular Music

STUDIARE LA POPULAR MUSIC

Nel 2013 un decreto ministeriale ha inserito, tra i corsi di studio nei Conservatori di musica italiani, un diploma accademico di primo livello in “Popular Music”. La novità è stata accolta “molto positivamente” dalla IASPM italiana, o meglio da alcuni docenti italiani associati alla International Association for the Study of Popular Music, ma anche con molte riserve ben argomentate come è possibile leggere in questo documento reso disponibile sul sito dell’associazione: Documento_Pescara.pdf La novità, pur considerando tutte le giuste obiezioni, resta comunque davvero positiva e per certi versi sorprendente. Ricordo che alla fine degli anni ottanta, chi, come me, seguiva con interesse la storia e l’evoluzione della cosiddetta Popular Music, immaginava lontanissimo (se non irraggiungibile) il momento di un riconoscimento istituzionale e ufficiale a quel vasto insieme di generi musicali che non sono classificabili sotto l’ormai inadeguata etichetta della “musica colta”. A distanza di più di venti anni, rileggo quanto scrissi nel libro Studiare musica: obiettivi e percorsi (a cura di Gino Stefani, Bologna,  Editrice  Clueb, 1987). È un breve intervento che riporto per intero qui di seguito. È ciò che scrivevo e pensavo allora. Adesso penso piuttosto che il contesto sia così profondamente cambiato, soprattutto per quanto riguarda il “mercato discografico” e il “sistema dei media”, da risultare impenetrabile ad un’analisi che non tenga conto di nuovi parametri e categorie.

«Denunciare come ideologica la scelta di una sistematica esclusione dalle scuole istituzionalizzate di generi musicali diversi da quello detto “colto” può apparire, ad una prima analisi, contraddittorio. Quei generi ‘diversi’ , infatti, in cui si riconoscono gli appartenenti ad una sottocultura, sono il frutto di comportamenti trasversali e illegittimi che, in quanto tali, sfuggono al controllo della cultura dominante e quindi dalle istituzioni. Inoltre, all’interno di tali sottoculture, i modi di trasmissione del sapere musicale sono vari e imprevedibili e comunque antitetici a quelli che caratterizzano la cultura musicale istituzionalizzata. La contraddizione consisterebbe nel voler riportare al controllo istituzionale, in nome di una auspicabile deideologizzazione della cultura, ciò che nasce per sfuggire al controllo stesso. Ma la contraddizione è soltanto apparente. Anzitutto perché la funzione normalizzatrice delle diversità – funzione che si esplica, in questo caso, nel riproporre, sotto forma di merce controllabile e senza valore, ciò che è nato da pratiche e stili di vita devianti – più che dalle istituzioni normalmente intese, è esplicato dal sistema dei media: quella musica che è parte del mercato discografico, e che noi vorremmo occupasse uno spazio nelle scuole di musica, è in realtà già stata ampiamente  ‘trattata’ e ‘normalizzata’. In secondo luogo perché la nostra proposta è di portare nelle istituzioni generi musicali, non in quanto presunti eversivi, ma in quanto diversi. Siamo cioè convinti che la presenza di culture estranee all’interno della scuola istituzionale sia la premessa necessaria affinché si possa procedere nella direzione del superamento, da una parte, dell’assurdo stato di estraneità in cui la scuola si pone nei confronti del paesaggio sonoro che la gente vive quotidianamente e, dall’altra, di un concetto ideologico di cultura intesa come espressione di una élite. (G.Cresci)» (ibidem, pp.158-159)

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